Sicuramente anche i non romani sanno per sentito dire o per averlo letto che la città è antichissima di anni. Anzi di secoli e tra non molto tempo la vetustà addirittura sarà di tre millenni. Di conseguenza posso fare bella figura con il racconto di come sia nata la “città dei sette colli”. Sicuro al riguardo di dire tutta la verità e, dunque, di non sbagliare.
Ed invece devo convenire subito che aveva ragione il padre del proverbio che recita : “sbaglia anche il prete all’altare”. Poiché la svista e la memoria possono trarre in inganno. L’importante è che il “dimentichino” possa riparare l’involontario errore e chiedere comunque scusa.
Grazie allora una e cento volte a Fabio Silvagni, Sindaco “operaio” (così ci tiene di essere chiamato) ed Arianna Esposito, Assessore alla Cultura. Un duo di autorità della Città di Marino che hanno con la Mostra di pittura, centrato tre bersagli:
primo: dare un impulso ulteriore alla cultura locale e nazionale ricordando la poetessa Vittoria Colonna ed il musicista compositore Giacomo Carissimi, ambedue monumenti storici delle cognizioni intellettuali cittadine;
secondo: iniezione di fiducia per i gradini basilari del sapere sempre e di più;
terzo : generosità verso Maestri della pittura altrimenti nascosti o addirittura ignorati o dimenticati.
E’ storia nota – riprendo il discorso iniziale – che due fratelli, secondo la leggenda veramente di “latte”, si diedero da fare per dar vita a qualcosa di eterno. Sul piano morale partirono con il piede giusto, ma poi persero strada facendo la retta via. In poche parole la storia andò così. Romolo e Remo – non c’erano le “strisce” allora e neppure gli “amati“(si fa per dire) vigili urbani (meglio “pizzardoni”). C’era un solco a delimitare lo spazio destinato ad ospitare la futuribile città e Remo lo saltò. Romolo allora lo uccise per porre rimedio in qualche modo all’azione sacrilega compiuta dal fratello. Poi approfittò di essere rimasto l’unico fondatore per autonominarsi unico e primo re di Roma.
Così stando le cose, posso allora buttarmi alle spalle il racconto di questo o quell’avvenimento relativo a Roma. Certo di non sbagliare e di non aver perso per strada alcun particolare.
E’ stato così che a luglio 2014 i figliuoli di due pittori, purtroppo scomparsi, sono ricorsi a me, giornalista in pensione novantatreenne ed un poco rincitrullito, per riparare una terrena dimenticanza.
Dei due artisti una enciclopedia italiana è riuscita, per il rotto della cuffia, a dare giustamente notizia di uno dei due quale italiano di rilievo ma dell’altro non dire alcunché. Per motivi connessi a fatti nazionali storici di assoluta importanza (da monarchia a repubblica!) “ubi maior, minor cessat”. Così dicevano i nostri padri latini, ma quello dimenticato si ritrovò ad avere le pive nel sacco. Cioè : nulla!
Ed allora? Allora mi sono imposto. E’ giocoforza porre riparo al non detto. Anche perché il cognome “Omiccioli” ha un suono riduttivo come “picciol cosa”. Ed invece ha il valore di un nominativo di ottimo spessore. Tanto da portarsi ad esempio. Come dirò in chiusura.
I due fratelli nel ventesimo secolo, protagonisti di questa storia, correlata alla pittura ed altro, si chiamavano Giovanni ed Alfonso. Tra loro intercorrevano venti anni di differenza. Ma ambedue nati in anni più che turbolenti e dunque arci movimentati. Vuoi da guerre mondiali (1915/1918 e 1940/1946) e da Stati addirittura taluni scomparsi dalla cartografia per questioni storiografiche e politico geografiche o per la stessa novità di base invece accreditati ex novo o di rinascita. Giovanni è nato a Roma da Abilio e da Zelinda Ercolani, quale primogenito il 25 febbraio 1901 di una famiglia (sei figli) molto numerosa. Questo aggettivo sta a sottintendere che non c’era di che scialare. Il bambino nel ceto popolare frequentava le scuole elementari fino al terzo anno per poi essere arruolato nell’esercito di un mondo artigiano ricco, di tradizioni ma, frattanto, di un presente difficile se non di tutti certamente di futuri uomini muniti dalla buona volontà e dalla capacità di riuscire a salire i gradini della scala sociale.
Giovannino a dieci anni era apprendista meccanico in una officina e a dodici giovanissime primavere andò ad aiutare il padre nel mestiere di imballatore per conto degli artisti (pittori o scultori) nella bottega di Via Margutta 32. Questa non è una favola, ma la realtà di due nascite che avrebbero potuto originare forse filiazioni ostili l’una con l’altra. Come dire crearsi la rogna in casa. L’una in effetti avrebbe potuto far scattare invidie se uno o l’altro dei due gruppi (sei e cinque figli) avesse scelta una vita operativa non di “mestiere”, ma di “arte”. Nel caso qui protagonista intelligente della catena “una ciliegia tira l’altra”. Non dunque un fastidioso bis ma una graditissima ripetizione. Il senior dei due fratelli (venti anni di differenza) brinda felice al nuovo arrivato e alle fortune che gli augura di cuore.
Prima dimostrazione di stima: un Maestro, Mario Mafai, un giorno gli chiede di fargli vedere le sue pitture. Ne rimane buon giudice, mantenendosi entro i binari non della sola affettuosità, ma in quelli del bravo ed eloquente motivo di una ben giustificata presenza sul catalogo della mostra “la Bottega di Emilio” in via Margutta 86. Ma riprendiamo il filo biografico del discorso e con questo anche l’altro della bibliografia che riguarda sempre Giovanni . Il quale nel 1941 iniziò a dipingere la serie degli “Orti” e confessò a chi voleva saperlo seguendo la numerazione progressiva: “dal ‘41 al ‘45 ne ho dipinti 68. Per non dire che anche ho seguito studi particolari per non sbagliare”. Sono sue parole.
Noi siamo qui per riequilibrare le sorti. Ne dà prova, fuor di discussione, quando conclusa la serie degli “Orti” venne preso dalla ispirazione suggerita quale pittura della povertà. Anche con la novità della personale sua presenza “politica” come vedremo. Riposta nell’archivio la mostra fascista, il servizio militare, (1939 – 1941), nel ‘37 organizzò la prima personale alla Galleria Apollo. Poi “il Babuino” e “la Campana” (1943-1944) e soprattutto la “bomba” del 1945. Insieme a Mafai, Guttuso ed Afro progettò la prima testata de “L’Unità”, giornale del Partito Comunista Italiano e con Cagli, Turcato, Leoncillo e Franchina partecipò alla “Mostra dell’Arte contro le barbarie”: ”Fucilazione a La Storta di Bruno Buozzi” e “Tre partigiani impiccati”.
Non è facile scrivere dell’uno e dell’altro pittore. Giovanni – lo ripeto – è della classe 1901, Alfonso del 1921. Venti anni sono tanti e lo sono soprattutto perché la vita dei fratelli è due volte simile e diverso il mondo che pure li avvicina.
Per inciso sarebbe bello assai se una decina di Comuni marinesi vorranno frattanto praticamente far corona con loro adesioni e presenze personali a Marino quale vetrina da non perdere di vista. Riprendiamo il filo degli eventi e scusate la sovrapposizione dei fatti.
Giovanni Omiccioli – ho scritto – si è innamorato della pittura vedendosi passare sotto gli occhi disegni e quadri che portavano le firme di Mafai, Scipione e Mazzacurati. Ha iniziato anch’egli a dipingere (nel 1934) e quando il fratello Alfonso, nella bottega del padre, vede Giovanni farsi strada nella giungla dell’arte contemporanea dei colori e del pennello, pensa di accodarsi. Prima però una giornalista lo ha solleticato in maniera di spronarlo al grande passo. Scrisse su un giornale che io dirigevo: “alla pittura si può arrivare in tanti modi. Alfonso ci arriverà raddrizzando chiodi”. La profeta era mia moglie e ci indovinava. Era brava. Si chiamava Giuliana Gargano. E’ scomparsa nel 1997 dopo aver scritto tra i tanti un libro: “I Prerampanti, Le vere origini delle grandi famiglie italiane” .
E’ una “summa” che sulla copertina ci ha onorati di una xilografia, ovviamente, di Alfonso Omiccioli. E’ visibile presso le Biblioteche Nazionali.
Quando i fratelli Alfonso e Giovanni hanno cominciato a farsi strada nel novero dei pittori italiani di lunga fama, all’inizio sembrarono lavorare e vivere usando la carta carbone. L’uno e l’altro chiamati dalle condizioni non fluorescenti di cassa, a dare olio di gomito in giovanissima età: 11 anni. I bambini allora andavano al lavoro finite le elementari.
La biografia? Leggetela e converrete che i loro adepti amavano ed amano parlare sì di sport ma anche di fiori, di verde, di acqua, di imprese realizzate da essi protagonisti della corsa, degli affondi, dello sci, dell’alpinismo e di altre configurazioni di simile origine.
Avete letto che Omiccioli junior quasi si vergognava di essere il secondo amante di belle arti. Lontano da Alfonso il pensiero di “scimmiottare” Giovanni e solo ben lungi dal suo pennello l’invidia. Che, pur se troppo ed a scorno del solo, ritenerla possibile di presenza, è un reato! Pensate da giornalisti di grido: i due fratelli son ben differenti dai gemelli fondatori dell’urbe. Giovanni lavora per proprio conto, idem per Alfonso. Il loro far centro è felicità per ambedue giustamente orgogliosi di portare, l’uno e l’altro, iniezioni d’acciaio al cognome. L’unico interruttore di corrente proveniva dagli orari di lavoro. Tutto qui!
“Pittore (n. Roma 1901). Risiede a Roma; ha pertecipato alla Biennale di Venezia dal 1948 al 1954. La sua opera – ritratti (Giovane pescatore), nature morte, paesaggi (Baracche sotto la neve) – si distingue per un particolare realismo semplificatore, commosso talora fino al lirismo che si esprime con felice ricchezza cromatica”.
Queste righe, che parlano di Giovanni Omiccioli, si possono leggere, nel volume VIII del “Dizionario Enciclopedico Italiano” (pag. 545), edito nel 1958.
Ed ora partiamo dalla presentazione del pittore. La Treccani ha giustamente voluto (e mi uniformo al tempo passato) essere presente pur se in modo quasi scheletrico. Superficialmente, sembra. Ed invece già è presente per ricordare che sarà cura di chi “vuol sapere” il di più che il citato Omiccioli senior ha……prenotato comunque una poltrona di merito e d’onore.
Da segnalare che nel contempo o quasi Alfonso ha iniziato ad abbandonare in tutto e per tutti Duke Ellington e Louis Amstrong, stelle della musica jazz con i loro complessi e suoni travolgenti.
Non ci sono notizie con esattezza di quante tele e quanti colori portino una firma “Soon” che nasconde la vera: Alfonso Omiccioli.
Il quale ha saputo leggere e traslare le quattro lettere in lingua da britannica. Nell’italiano vuol dire: “presto! Più presto!” Cioè: facciamo partire l’imballato!
Così la penso e vedo, io che ho scoperto che “Fonsino” (le parole sono sue) ha lasciato scritto “ di giorno lavoravo in bottega e la sera, dopocena, in cucina tiravo fuori tutto e cominciavo a dipingere”. Ne fanno fede gli appuntamenti pittorici che partono con la mostra Nazionale del “Premio San Remo”. Datato 1958. Vale a dire che Omiccioli Junior parte per la…maratona dei….pittori quando ha circa 27 anni. Non si discosta granché – mese più mese meno – dai 28 che registrò a suo tempo Giovanni. Il quale conobbe Mafai che vide i disegni e lo incoraggia a dar di …..matita.
Coraggio? Ne ha da vendere Giovanni.
Dice a Zavattini: “ è un “orto” che ho dipinto io” (1943) e lo scrittore sceneggiatore compra.
Alfonso dice la sua (1945) : “ ho conosciuto De Chirico, Carrà, Mafai: chi vivrà vedrà, pensa. E vincerà – lo dico subito – la prova-sfida.
Il fraterno amico Alfonso, con la moglie al seguito, una sola volta ha potuto vivere con me all’estero i giorni del mio frenetico lavoro. E’ avvenuto nell’estate 1982, o comunque in giornate di ottimo tempo in Olanda. Avevamo convenuto da tempo che i giorni della “comunella” avrebbero coinciso con un torneo di pallavolo, una delle mie rubriche in carico al giornale quale inviato.
Avevamo preso…dimora in un albergo di L’Aia dove si svolgeva il torneo. Coniugi Lolli più coniugi Omiccioli juniores. Quattro in Paradiso! Mattino e pomeriggio liberi, in notturna solo per me lavoro come di rito. Una tre o quattro giorni (non ricordo bene) e poi vita di turisti. A Delft, in autobus, pochi chilometri da L’Aja, visita ai gabbiani. Con rituale pastura o pastume ai volatili.
Ovvio il dire che Fonso, appena lo potesse fare avrebbe disegnato o dipinto gli studi dei gabbiani o di altre cose site nel luogo. Io conservo un grande lavoro a penna di un mulino a vento firmato da Alfonso focalizzato nel 1982.
Già con la scomparsa di Giovanni Omiccioli non si può in alcun modo imbastire, non dico un processo, ma neppure la minima suspicione di pastetta in famiglia, si fa per dire. Giovanni ha sì ottenuto l’essere risultato assegnatario vincitore con altri “ compagni” della testata “ L’Unità”. Ma, ricordo, l’amico “G” già in precedenza aveva chiaramente espresso di non avere nessun debito di riconoscenza ad altro od altri. Che artista e che uomo di carattere. E meno che meno in termini di sostanziosa moneta. Ha primeggiato, perché super disegnatore. Punto e basta.
Anche per quanto riguarda Alfonso, che io sappia, in tema di disegni, ha saputo lavorare sempre benissimo. Personalmente l’ho accompagnato ed ho presenziato alla consegna di un quadro religioso da lui studiato e realizzato. Lo accettò, come prestigioso dono all’uopo benedetto, il sacerdote massimo della Chiesa dei Miracoli sita a Piazza del Popolo. Per essere sicuri era la Chiesa consacrata ed eretta tra Via di Ripetta e Via del Corso a Roma.
Giovanni ha la motivazione della medaglia al valore nella Enciclopedia. Alfonso, dall’alto del cielo, potrà leggere quello che il Direttore delle Belle Arti nel 1971 ha scritto a vanto personale. Di Fonso leggerete con noi. (vedi pag. 27)
Con queste credo chiarissime delucidazioni posso concludere il mio modesto apporto. “ G” ed “A” ben meritano di essere le iniziali alfabetiche maiuscole dei loro rispettivi nomi che ritengo di fama. Di eccelsi operatori di disegno, pittura e dignità di italiani, quelli veri.
Prima di congedarmi devo tornare a dire del cognome Omiccioli. Che a volere ben spiegare che al plurale è uguale al diminutivo di uomini di poco valore e conto. Vedere come testimoni a nostro favore invece – Dante, San Francesco, Ariosto e via di questo passo – con altre firme eccelse della cultura italiana allora il discorso è ben diverso. I due fratelli sono pietre miliari sulla strada dell’Arte pittorica e dunque della civiltà. Andava ripetuta l’esatta interpretazione. Così sia quale mia speranza sul piano di una ripresa della civile socialità. Araldi e Alfieri due aedi della riscossa Giovanni ed Alfonso: bravissimi in materia.
E torno a ringraziare chi ha voluto la Mostra Marinese.