Omiccioli, nel 1939, dipinge l’Autoritratto vestito da soldato, con la tavolozza e il pennello in mano, come un triste medaglione del ricordo e del presagio.
Quell’Autoritratto, tecnicamente ancora lacunoso, stilisticamente ancora alquanto riflesso, inaugura in Omiccioli la forma del suo sentimento, la forma morale del suo sentimento figurativo: diciamo che un, o il, linguaggio pittorico attesta per la prima volta in Omiccioli dei pensieri e dei sentimenti dell’uomo, ossia dei suoi atteggiamenti morali, del suo intenso grado di civiltà.
Oltre l’Autoritratto, dipinto non certo fortuitamente in quell’atroce vigilia; oltre quello, quasi un “ergo sum”, tanto patetico quanto drammatico, dedotto da quel “cogito”, da quel “pingo” stupefacente, dalla fondazione cioè di quella prima, facoltosa e inalterabile verità: la pittura; oltre quello, che per noi, ripetiamo, è come il tipo del sentimento di Omiccioli, ancora deserto ma già ansioso delle sue figure e dei suoi oggetti, delle sue rappresentate responsabilità morali; oltre quello, oltre il 1939 dunque, quando la realtà, nell’orrendo clamore della guerra, era già quel patetico presagio, quel sintomo di devastazione del grigio dentro il verde, di quell’ingiuria violenza e mortificazione sul corpo della speranza di quell’uomo, di ogni uomo; oltre quello, la pittura di Omiccioli tende a riconoscere uno per uno i suoi mezzi e i suoi fini, questi in quelli e viceversa, tende a riconoscere se stessa, secondo una esplorazione leale e paziente, faticosa e felice, eseguita virtuosamente in corpore vili, proprio per le sue terre, i colori; per la terra di Siena e il blu di Prussia e la lacca di Garanzia, senza trucchi e senza diavolerie, senza maestri né letterati, senza simboli né miti. Dopo il 1939 la pittura di Omiccioli si va incontro da sola, per amore e per forza, per esperimenti manuali, si vuol dire, iterati tanto, da ritrovarsi infine su quello scheletro un corpo, una fisionomia, una realtà che è talmente sua, se stessa, da parere ed essere evocata: quella.
Questo processo di ricerca d’una e una sola espressione, questa indagine amorosa e preoccupata, quasi artigiana, questo tentativo della pittura di Omiccioli di conquistarsi un linguaggio, un suo strumento di resa e comunicazione, di congiuntura nei rapporti umani, elettivamente e si direbbe, tecnicamente informato alla costituzione francamente popolare dell’artista, questo avviene dal ’39 al ’45, in anni di guerra e persecuzioni, tremendi per la libertà dell’uomo; avviene, per nostalgia, quasi sperimentalmente, a contatto della natura, di una natura domestica e palpitante, quella degli orti di periferia, col girasole che spicca ruotando dietro la luce sin dentro l’ombra, e gli alberi, gli ortaggi, la baracca, il canile, il pollaio, e i fiati i passi le voci di chi li vive, ai margini della città, fra echi caldi di quelle stragi e l’aria di affanno e provvisorietà che grava e filtra dal recinto di legno e filo spinato, timbrandosi accoratamente sui colori.
In quegli anni, e poi sempre, Omiccioli dipinge fuori della complicità dello studio e dei modelli artatamente vestiti o spogliati, delle nature morte ordinate fra le pieghe dei velluti. Ma pure, in quegli anni, Omiccioli non dipinge di Roma, della città dentro le mura, né un obelisco, né una piazza, né una chiesa del Borromini né una fontana del Bernini, né il fiume né un ponte, né angioli né diavoli, né agnellini sgozzati né trasteverine; Omiccioli, romano, non dipinge nulla di Roma abbagliata e arsa, pochi anni prima, dall’avvampante apparizione di Scipione. Omiccioli, nel 1941, si mette alle spalle quegli interni gelidi della cultura, quelle atmosfere sapientemente propagate sulla traccia allusiva di un dolore d’incenso o di zolfo (conformismo ed eresia), si mette alle spalle quel prestigioso fondale, per molti, anche se non per tutti, così irresistibile, perpetuo.
Nel 1941, Omiccioli esce, per cosi dire, dalle vecchie mura della “città pittorica”, se ne va in un orto di Via Flaminia quell’orto, un orto, dipinge per quattro anni. Questo fatto, anche se in esso v’è già un forte senso di scelta, una carica della volontà e del gusto, non assume in Omiccioli il significato di un gesto: né di umiliazione né di superbia , né di mortificazione né di scatto. Esso è invece in un ordine, in un doppio ordine drammatico di urgenza e necessità: quella di sfuggire alle persecuzioni e alle stragi, senza però privarsene dell’orrore e dell’aspra tristezza; e quella, aggiunta all’altra con fortissimo nesso, di presentare alla sua pittura, mentre questa diviene e si volge da istanza in formulazione, un “oggetto” da assumere non, o non soltanto, sperimentalmente, transitoriamente; quella, cioè, di garantire senza indugi la sua pittura in una esplicita oggettivazione, così utile come amabile, in una prima organizzazione di partecipati contenuti, esclamazioni risentite e dolenti in mezzo a quella crudeltà, ad apertura di un discorso che sarà ininterrotto e sempre più umanamente impegnato. Noi, cioè, non riteniamo che l’orto di Via Flaminia sia stato una “prova d’artista”, un insistito pretesto per esercizi di stile: il porcellino d’India che Omiccioli tenne in vita sinché non lo aiutò a scoprire, ad esempio, che il giallo cadmio era il più caldo di tutti i gialli, o che la lacca era il suo rosso.
Omiccioli , in effetti, preme l’orecchio sulla terra di quell’orto e quella che lui riferisce, sino al 1945, è, fuori di metafora, una pittura fatta in ascolto delle stragi, di un sordo e orrido rimbombo. Nei quadri di quel periodo, riguardateli, il cielo è quella eco mortale, i bleu i viola i rossi i neri l’ocra sono fondi cupi e gravi, asserrano e implicano in un presentimento di fine i bianchi i gialli i verdi i rosa che sono l’orto: baracche masserizie utensili, cani e galline, e sembianze dell’uomo, e carote cavolfiori pomodori agli cipolle e papaveri e girasoli, un’ultima innocenza e purezza la cui integrità il pittore vuol far sopravvivere segnandola però dell’accoratezza luttuosa di quel tempo, proprio di quel tempo. Quel riquadro di terra caldo e gremito, nel suo inerme e tenero confinato, sta tutto e tanto nell’occhio del pittore, ond’essere preservato, che la realtà che è vi si propaga infine sino all’evocato, divenendo intangibile, così numerandosi e fortificandosi dal numero 1 sino a un numero n orti dentro la memoria e l’affetto.
Una pittura siffatta: risentita ma che poteva sembrare soltanto in apparenza impressionata; piena di tiepidezze ma dalla quale la figura, l’uomo, che subiva in quel tempo un’esperienza terribile, era assente, o quasi, o immaginata solo come un palpito in quei suoi dolci, antichi luoghi (ma Ercolino è pure del ’43); affidata, nella sua incruenza e quasi gradevolezza, a una apparente attesa e solitudine, come a un patetico esilio in patria; una pittura siffatta, che poté persino suggerire a qualche critico una “poetica degli orti di Omiccioli” fondata, appunto, su quei falsi attributi riferibili tutti nel termine di “fiaba” e in quello di “parcolleggiamento” e questi due in quello di “evasione” (non sappiamo se scrissero “Rosseau” o se scrissero “Morandi” quella volta); una pittura siffatta, in apparenza arresa al suo candore e alla sua grazia (eppure sono del ’43 quelle alte, drammatiche prove di resa diretta, forse le prime del genere in Italia, quali, ad esempio: I partigiani impiccati, in un verde macerato di compianto; i fucilati della Storta, nell’umidore di quell’alba luttuosa; I campi di sterminio, una costellazione di scheletri dai pieni lividi, bruni; I bombardamenti di San Lorenzo, un terreno sconvolto ma già fermo a comporsi in un severe paesaggio della memoria, un atroce ammonimento); una pittura siffatta, diciamo, era sostanzialmente non soltanto inquieta ma pure, e non per caso, inquietante.
Era inquietante per se stessa, per i suoi stessi argomenti, come una protesta, essendo in essa spontaneamente avvilita e vinta l’enfasi, l’enfasi quale enfasi; e poi la presunzione, la grossolanità e brutalità di quel sopruso politico sin dentro l’arte; e poi, anche, avvilito e vinto in essa il gelo, il calcolo, lo splendore in sé sigillato, l’intelligenza senz’anima diciamo, di cert’altra arte. Era inquietante nella stessa impreveduta banalità e volgarità dei suoi argomenti, nel suo stesso integro e scoperto sentore popolare, nella novità e nell’innocenza estatica e minacciosa, come un grido represso, di quella periferia. Era infine inquietante, quella pittura, in quel colore, in quel suo colore, proprio di Omiccioli, che impressionava la retina entro un battere di ciglia, ordinandosi subito dopo, un colore accanto a un altro, a un altro, ed essendo in uno quel sentimento figurato, quel colmo grado di emozione di cui tanto partecipano gli orti dentro la tela, e carote e cipolle e agli e pomodori e cavolfiori e papaveri e girasoli dentro gli orti o soli dentro la tela (ma in nessun caso mai al titolo convenzionale di “nature morte”), da assumere di fronte a questi nostri occhi il valore psicologico di ritratti, come di cose, sembianze alluse e partecipi d’una vita che ci restituiscono con scrupolo quella emozione, il pensiero dominante di cui il pittore, per un bianco per un rosa o per una lacca, li dotò.
Ed è da dire, qui, del colore che Omiccioli s’inventa in quegli anni, con pazienza e lealtà incredibili, con esiti strepitosi, ossia certi, esplicatissimi. Omiccioli corse però tutti i rischi di una ricerca sul colore legata direttamente allo stesso primo corpo della sua storia figurativa; corse tutti i rischi che consistevano nel tentare di conquistarsi, non scolasticamente o culturalmente, una sintassi che fosse già, insieme, senz’altra perdita di tempo, la sintassi dei suoi sentimenti. “Omiccioli, sappiate, giunge a 34 anni alla pittura, e per anni farà ancora l’operaio all’Ansaldo. Vi giunge con una forte carica di umane esperienze: quelle tristezze e quelle proteste, nei giorni suoi e dei suoi simili, le quali già si volgevano a un muro su cui essere pubblicate come Evviva e come Abbasso, ma senza enfasi sempre, con pudore solo, con l’ardente castigatezza, diremmo, di ex-voto all’altezza della propria coscienza”.
Da qui l’obbligo, l’urgente impegno morale, d’inventarsi perentoriamente il colore, di spaccare con le sue mani il loro vecchio mallo e trovarvi, e come dire riconoscervi, ad esempio, fra tutti i verdi quelli smeraldo e permanente come suoi, così fra tutti gli altri proprio i suoi colori, portatori fedeli, come cani da caccia, dell’emozione sola o solidale, come fra un grigio semplice e uno complesso, che esse stessi in natura, in luogo cosa o persona, gli danno.
Infine: riconoscendosi, con stupefazione ma non senza laboriosità e sacrificio, in un linguaggio che ormai si articola addirittura per simpatia nei suoi argomenti, la pittura di Omiccioli, alla fine della guerra (e c’è un ultimo orto in cui la luce già crepita e garrisce alla cima d’un mandorlo in primo piano, come a inaugurare la sua riconquistata libertà) è già un comportamento morale, un atteggiamento dello spirito di quell’uomo già inizialmente realizzato, una riflessione sul mondo, fatta da uomo a uomo, indirizzata a qualcuno, per qualcuno.
In questo senso, in questo tempo, i suoi fini coincidendo già nei suoi mezzi, la pittura di Omiccioli comincia a farsi inalterata, fedele, oltre quegli orti che erano già il riferimento morale e civile d’una realtà accertata in quanto era e perché era; oltre quegli orti che erano già la proposizione che “una rosa è una rosa, una rosa” timbrata colore per colore sino al suo “fuoco”, al suo riconoscimento poetico e drammatico. Così, quella pittura, accrescendosi nelle emozioni del suo itinerario figurate come in un giornale (schermo, o muro) sarà sempre più fedele a se stessa, come scoperta e partecipazione, fedele al mestiere , a quel sublime mestiere che è infine di lasciar memoria visiva di bellezze come di brutture del proprio tempo, di nobiltà come di vergogne e miserie e tristezze del sentimento di quella società; fedele a se stessa in luoghi e persone, e si direbbe addirittura razze della periferia , e non soltanto geografica, non soltanto, d’Italia come di Roma. Così, quella pittura, Omiccioli, negli anni che seguono, sino a questo anno, al ’50, al viaggio a Scilla, a una quasi favolosamente triste periferia d’Italia, e poco più in là non c’è che la Sicilia, quasi la Luna per gran parte degli italiani.
Così, dunque, nel ’45, nelle risaie del Vercellese la pittura di Omiccioli si lascia impressionare dallo spettacolo delle mondine al lavoro, figure tutte di schiena, un dolce affaticatissimo anonimato; quella razza in quella periferia.
Poi dal ’45 al ’50, quella pittura è ancora una immagine in Italia, col suo nome e la sua vita di periferia: il piazzale di Ponte Milvio, suburbio, precittà, ma non ancora, mai, città, la (lontanissima) città.
C’è per anni questa veduta (che tanto piacerebbe a Utrillo, senza potervisi tuttavia riconoscere), quasi dall’alto, come da un balcone pensile fra i rami radi o fitti degli alberi: quasi che il pittore senta ormai il bisogno di dilatare quanto più è possibile nel suo occhio quella immagine ed emozione, in più, in altre, a far da corale, insomma, epperciò potente ed evaso, ciascun aspetto finitimo, romano, di quella periferia.
I due verdi di Omiccioli, i rosa e i bianchi, i rossi e i bleu, sono qui di stagione in stagione, d’anno in anno, soffusi o vibrati o infine così teneramente squillati, da far vacanza persino in quella periferia, in quella emozione mai gaia: far giorno raro di libertà, domenica di osterie e di ciclisti che corrono “in circuito chiuso” attorno al piazzale; di balli all’aperto se un suonatore ambulante gentilmente si presta, e di partite di calcio di I divisione sui campetti recintati dai corpi degli spettatori e nelle quali i giocatori, a coppie, sembrano anch’essi affettuosamente incontrarsi in un ballo, sul ritmo battuto dalle mani dei due portieri.
Ecco e in quei cinque anni, oltre “il piazzale di Ponte Milvio”, c’è pure: ancora il Vercellese (’47), la neve, un’innocenza che pare inventata ed è invece reale e grave di disagi e di affanni; c’è il secondo Ritratto del padre (’46), di pelle bianca e rosata, che vien fuori ritto da un tenero, familiare verde permanente; e il muratore (’47), in posizione meditata di riposo, con la cazzuola in mano, cordialmente memore, a chi lo guarda, dell’edificio in costruzione alle sue spalle. (Ci ricorderemo a Scilla dei Ritratti del Padre e della Madre, di Ercolino e del Muratore, di questi pochissimi Ritratti di Omiccioli, riflettendo sullo scrupolo, e quale scrupolo, sempre denunciato da questa pittura ad accogliere la figura del suo pudore: a prender figura in quest’uomo o in quella donna, e perché proprio in questo o in quella, e non piuttosto in altri).
Ecco, e c’è ancora, qualche mese prima della lunga estate a Scilla, il viaggio dentro la Sila, questa periferia ancora inedita della pittura di Omiccioli: un’altra foresta d’alberi, un verde cupo e fitto come in un cielo contro il cielo e sotto, ai tronchi sfoltiti di quei legni, una società quasi di pionieri: casette scavate forse nei tronchi, le segherie e i trenini nel loro fumo, sui binari appena appena allineati; un paese talmente ignorato da parere avventuroso ai nostri occhi come, per dire, il Canadà o un paesaggio western; un paese che è già in Omiccioli la Calabria, ma non è ancora, non è quasi per niente, la tremenda Calabria del mare e dello Stretto: Scilla.
Scilla, sapete, è sullo Stretto di Messina, dirimpetto alla Punta di Torre Faro, a Cariddi, l’altro dei due mostri-caverne fantasticato da Omero.
Scilla, vedete, è questo prospetto basso e bianco di case su di un mare, appena oltre la riva e gli scogli, vertiginoso, dal bleu cangiante sino a un color latte e una spiaggia sulla quale sembrerebbe possibile trovare conchiglie e relitti di naufragi. Questa spiaggia era sulla rotta lunga e inesplicabile di Ulisse e qui forse si nascosero alcuni suoi compagni buttatisi a mare incontro al canto delle Sirene che aveva bucato la cera nei loro orecchi: rimanendogli però negli occhi il fascino sgomentevole dell’ulissismo, di quel pauroso viaggio di “conoscenza”. Sgomentevole fascino di cui ancora oggi è un segno nella circoscritta ma disperata, vasta avventura quotidiana di questi pescatori che remano chini e assorti, in un gesto severo e immutabile, in un tentativo continuamente ripetuto di condurre l’imbarcazione dentro, più dentro dove il mare è mare, perché a costo della loro vita di padri sia conosciuto e vinto poi nei figli, ridotto a preda, a cibo. Perché per essi, cattura del pesce, tutti i giorni, nelle quattro stagioni, cattura del pesce e soddisfazione della fame è si o no “conoscenza”. In quest’unico senso sono ulissidi questi pescatori: sulla scia irresistibile, vaga insieme e mortale come il canto delle Sirene o la vista delle Colonne d’Ercole, del tonno o del pescespada, o del delfino anche e del pescecane; sono così navigatori d’altomare dinanzi a Scilla, alla loro Acitrezza; così circumnavigammo il mondo fra ponente e levante sullo Stretto.
Questa Scilla sono ragazzi come secche olive, modelli greci passato attraverso digiuni secolari, ragazzi senza parole e senza sorrisi, con vizze accoranti pupille; sono donne che aspettano anch’esse, partorendo e seppellendo, tessendo e stessendo, per dieci anni e dieci, il ritorno del loro uomo sempre sul mare; aspettano che il tifo e la tisi non siano più quei lutti come stagioni dell’anno; aspettano che il pesce in estate si possa mettere in sale affinchè l’inverno non sia quella gran paura; sono uomini che sono uomini, uomini sull’altomare del loro destino, riconoscibili padri di quei figli, mariti di quelle mogli.
Questa era, è Scilla, una irriferibile periferia , una razza che consegna e chiede giorno per giorno la sua vita al mare, correndo un rischio che è soltanto suo e lo confina in quella cocente solitudine e fatalità.
Per Omiccioli non si trattava più di lavorare in ascolto: in ascolto di una città (Via Flaminia, Ponte Milvio e persino il Vercellese, la Sila); si trattava più di lavorare in ascolto delle stragi (come sino al ’45) perché a Scilla le stragi sono quelle, accadono sotto gli occhi come l’apparire o il declinare del sole, hanno un nome e un viso d’uomo, e una porta listata a lutto per tre anni, e un bambino che muore perché privo di cibo e medicine, è una strage, si vede, e un uomo che nuore in mare, dove s’è, avventurato per quattro pesci da spartire ai figli (sia anche un delfino, che è una fera , dalla carne puzzolente, immangiabile), è una strage, si vede, Omiccioli le vedeva e appunto perciò non si trattava più per lui di lavorare in ascolto, evocando una realtà, quelle periferie episodiche, sino al suo cuore, sulla trama commossa del suo sentimento.
Scilla era talmente una realtà in sé colma e vista (talmente, diciamo, quasi da imporre anche a noi nel dirne, come per eccesso, quella certa enfasi del richiamo letterario a Omero e a Verga, e a quei simboli), era talmente quella “rosa che è una rosa, una rosa”, una realtà al suo “fuoco” poetico e drammatico, talmente riflessa nelle sue atroci emozioni, che la pittura di Omiccioli subì inizialmente come una violenza o sopruso, il paesaggio le impose come un abbaglio, una languidezza, una stasi: come un tempo forzato di riflessione in loco, di acclimatazione, sicché quel paesaggio, nei primi quadri, è soltanto contemplato, ritenendo di quell’urto e mortificazione, è ancora un’emozione bianca.
Nei primi giorni di Scilla, Omiccioli penò tristemente nelle inerti dimensioni della sua pittura. Partì, forse per andare a chiedere al padre della sua infanzia trascorsa fra i pescatori dell’Adriatico, e ritornando egli era come quelli di cui si dice che giunti in punto di morte si ricordano istantaneamente della loro vita e se la chiariscono tutta e ne riferiscono con parole urgenti e spontanee di verità: ritornando, Omiccioli può dipingere (quella sua vita presente, Scilla; da quel punto critico, Scilla) ininterrottamente dal luglio all’ottobre.
Questo: che Omiccioli varcasse quel paesaggio, poteva avvenire, ed era semplice quanto una scoperta, ed era necessario e sufficiente, perché la sua pittura, ripiegandosi su se stessa, alla naturalezza virtuosa e alla grazia popolare che la ispirarono e volsero in essere, simile quel tanto imponderabile d’enfasi che essa stessa, così aliena, aveva o avrebbe potuto inconsapevolmente procurarsi nel suo corso, come poesia sinanche, come emozione siglata in grazia: la sua poetica, diciamo.
E quella pittura, che forse non sarà mai più così lealmente fedele a se stessa esce di lingua, per così dire, impara il dialetto e come Stevenson agli indigeni dei Mari del Sud, Omiccioli agli scillesi narra le loro stesse, care e tremende favole : Scilla qual è, e il giorno e la notte, e il lavoro che è il giorno e che è la notte, la pesca in mare con la fiocina o la sciabica colle reti tirate a riva anche dalle donne dai bambini e dai vecchi; e il mare che è quello stesso lungo e inesplicabile ciclo; e i pesci presso il mare, quali spoglie vitali, appena una scaglia, di un nemico che si dovrà combattere, senza mai vincerlo, sino alla fine; e gli scillesi, se stessi, che Omiccioli ha collocato quasi dovunque in questo paesaggio”per figura”.
La pittura di Omiccioli, che era stata sempre così trepidamente allarmata dalla persona umana, e i pochissimi Ritratti testimoniano persino nell’accuratissima fattura di quello scrupolo, a Scilla inclina quasi per principio di necessità ad essa e se la fa campire in primo piano o in fondo, come valendosi di un pan focus, e vi si svolge intorno in mare e imbarcazioni e remi e reti, in scogli e granchi e sabbia e pesci e barche ancora e reti: perché quello, l’uomo, è il sentimento del paesaggio (e vedetelo, meditato, nel Giovane pescatore), il triste sentimento di necessità del paesaggio, del suo essere storicamente quello che è, in Italia, in quei suoi elementi vivi sotto un’antica patina di calce e sale, e del suo apparire oggi, a molti in Italia, da Omiccioli favoleggiato come in una bottiglia resa dal mare.
Perché la figura umana è se stessa, Scilla, quella, il suo paesaggio, la sua storia di fatiche e miserie tramandate di padre in figlio , di mano in mano, di voce in voce, è questi Ritratti di scillesi rilevati dal cielo e dal mare, alle spalle, come da due dimensioni d’usura: questi Ritratti della pittura di Omiccioli che culminando a Scilla nella sua fedeltà, fonda il suo linguaggio su questo dialetto del cuore e del sentimento comune.