“1943”
Era sempre di notte al lume di candela
che dipingevo queste mie cose,
che se scoperte sarebbero state considerate
“corpi di reato” e avrebbero valso
la fucilazione immediata
Appunti degli anni della guerra (1943/1944) ad opere come “I partigiani impiccati”, I fucilati della Storta” e “I bombardamenti di San Lorenzo”
“1950”
Nel 1950 esposi alla Galleria d’Arte Palma di Roma, 25 disegni, 34 dipinti di Scilla e 24 oli di diversi anni, con una presentazione al catalogo di D’Arrigo.
Quella sera l’acqua del cielo si scatenò per ore; i visitatori erano si e no quanti le dita di una mano, tra cui Roberto Melli che ne uscì imbronciato perché da pittore tonale quale ero stato fino allora, da Scilla ero tornato espressionista
“I miei Orti”
Quella così vicina ed estrosa zona periferica appena oltre Ponte Milvio, una volta così rustico, tanto romanescamente popolare quartiere, e che ora in piccola parte fa del tutto per resistere ad esserlo ancora, per me non era un ambiente adatto.
Nei suoi dintorni non era possibile fermarsi a dipingere una miserabile bicocca a ridosso di una collina, senza correre il rischio di essere sospettato come amico del nemico, e finire al buio seduto su tre tavole a riflettere sulle umane idiozie.
Che c’era una ragione lo seppi quando mi dissero che sotto quella pacifica gobba verde – nelle sue grotte – riposava una decrepita polveriera. Neanche poi se per la salvezza di Roma la presenza di un pittore in quei dintorni potesse essere tanto pericolosa.
Ma la pittura, come è musica e poesia, è guidata da fatti prepotenti, all’artista stesso sconosciuti, che si impongono a qualsiasi avversità.
Se avessi potuto avrei potuto starmene nel chiuso di una stanza, ma alla mia pittura sapevo che piaceva respirare all’aperto.
Così che sotto le pendici della Villa Strohl-Fern capitai un mattino in un ambiente in cui v’era un miscuglio di cose fino allora a me sconosciute. Da quell’arido spazio di terra, oltre studi e appunti, dal 1941 al 1945 uscirono sessantotto “orti” tra cui un unico ritratto: “Ercoletto tra il verde””. E se ora dovessi dire perché fin dal primo istante mi venne di chiamarli così, non saprei spiegarmene il motivo.
Forse per la prima volta, vedendo piantata in una cassetta qualche foglia di insalata o da un angusto viottolo uno stentato gruppo di cavolfiori.
Era tutt’altro – come è stato tante volte descritto – fantasticandovi sopra, che un magico Eden, un ambiente dall’aria idilliaca, senza turbamenti di sorta con il brioso trillare del gallo, tra buoni odori di cucina sguscianti da porte socchiuse o un passeggiare tranquillo tra una casina e l’altra ben curate e gaie nei colori, su soffici erette e tra variopinte staccionate.
Tutt’altro che un accogliente quartierino residenziale ma un ambiente di crude miserie, in cui l’uomo che ne respirava l’aria malsana e con l’angoscia nell’animo doveva pure assoggettarvisi.
Ciò che a prima vista potevano sembrare baracche non erano che un indescrivibile groviglio di tavole secche o marce a seconda degli umori delle stagioni.
Una sdrucita coperta e lo sportello di una macchina fuori uso come porta, e cartoni spellati pezzi di carta e tegole come tetti.
Un rubarsi uno con l’altro un bidone nuovo per cuocervi qualcosa.
Una lite per due ruote sghimbesce di bicicletta infilate entro uno spiraglio qualsiasi.
Tra uno squallido aspetto in un secchio arrugginito il fiorire di un fiammante garofano, e da una casseruola spuntare un timido girasole.
E poi striminzite creste di gallina affacciarsi da un intreccio di un fil di ferro e spaghi che volevano essere recinti. Un ricovero di gatti e cani randagi in continue zuffe tra loro in cerca di avanzi.
Ripostigli saturi di tutti i rifiuti possibili, occultati come fossero tesori da difendere. E sempre in volo coppie di piccioni a caccia di mangime, o al sicuro sui rami di alberi senza più vita.
Ma ciò che mi sconcertava in questa desolante bidonville era quell’abitare promiscuo su giacigli di qualsiasi tipo; di sfollati profughi e poveri dai vari dialetti, pur di trovare in questi avvilenti rifugi la speranza di sopravvivere a sciagure più grosse.
Lo stemma del rancore e della fame su di ogni loro viso, in quella Roma dai cavalieri dell’Apocalisse di allora, i cui simboli erano tracotanza e violenza da una parte, e dall’altra miseria e terrore.
I miei Orti, una pittura con l’amaro in bocca.
Testo recuperato dalla Rivista “Il Poliedro” – Rassegna mensile d’Arte di Michele Calabrese “Speciale G. Omiccioli” 1973
“A Ustica”
Ustica dalle scontrose rocce, da mille grotte bucata
dove massi emergenti dall’acqua, o colanti dall’alto come umane sculture
non sono mani dell’uomo, ma di un rovente passato
e dove la parola gridata a fil di voce è interminabile e musicale eco
e le accatastate masse di lava divise da “trazzere”
sotto l’accecante sole diventava inquieto vedere
dal fico d’india bruciato dai venti alla stentata sassosa campagna
che per voi Usticesi sempre è stato duro e avaro regalo
teneri e luminosi mattini, ma poi la sera quando il rosso disco affogava
nell’improvvisa e scatenata burrasca
era il segno di qualcosa d’angoscia, di notti urlanti e orfana di stelle
il pauroso urlo di un irascibile mare che sovrastava l’indifesa terra
e il grido tra voi, gente di mare in soccorso alle barche
naufraganti nella profonda e minuscola baia
strapazzata da secolari ingiurie d’uomini e tempi
così ti ritrovo Ustica, indimenticabile isola amica
Testo della cartella di 13 acqueforti presentate da Libero De Libero Edizioni Dell’Aldina – Roma 1971
“L’amica Mia”
“tra sassi e erbe c’erano tubetti spremuti, pezzi di tela, pennelli rosicati dall’uso, come se tutto questo fosse depositato lì da una tromba d’aria…..”
Mi sentivo dire da certi amici artisti: “ Ah, ma tu sei un pittore della domenica”. Dico: “Già, la domenica il mio divertimento è quello di avere un pò di colore in tasca, un pezzo di cartone, dei pennelli, e il mio tempo libero era così felice fino alla sera, non vedevo che passasse l’ora, venisse un’altra domenica per ricominciare da capo.
Ma presto ho capito che le cose erano un pò diverse, attraverso l’insegnamento di tanti grandi miei colleghi, naturalmente Scipione per primo, e poi sono successe cose così disastrose e la guerra e gli eccidi, questo e quest’altro, e allora mi sono rifugiato negli orti e lì ho trovato tutto un rifugio di cose miserabili, di cose tristi, di cose umane, un rifugio in cui io non avevo che la speranza, come gli altri, di uscire vivo da quelle sciagure.
E li ho trovato i motivi della mia pittura.
“Lettera a Ciarletta”
28 gennaio 1971
Caro Nicola,
ho voluto aspettare stasera, al calare del sipario sullo spettacolo su Scilla, per dirti più che un grazie, per quel tuo così fraterno e tanto civile affetto che è tutto dentro la tua cara lettera, dentro la tua cara persona.
Ma è affetto reciproco, credi, questo si. Che tu sai esternare però sempre nel modo più aperto, e che al contrario io dimostro invece così poco espansivo.
Ma l’importanza, la sostanza, è sentire tutto ciò: sentirsi ancora, ascoltarci, vivere ancora.
E la natura con me è stata buona, ha voluto che ancora per me fosse così, e la Pittura ha voluto che le facessi ancora compagnia.
Mi dici quante volte io sia nato, da parte mia non so, ma credo che la stessa domanda si potrebbe fare a molti, te compreso.
E’ il rinascere ciò che conta, tutti gli istanti della nostra vita, in un qualsiasi punto della terra dove questa profuma di cose sane.
E voltandomi indietro nel tempo, tutto, fin dall’infanzia, è tutt’ora limpido, offuscato soltanto da nebbie che questa ignobile inciviltà organizza a ciò che i nostri occhi diventino opachi.
Amare cose, per una natura così generosa con tutti, e così male ripagata, da milioni di esseri umani che non hanno più il potere di accorgersi che l’uomo è ben altra cosa che pietra inerte.
Ed allora proprio quella forza “morale” come te mi dici, che li dovrebbe spingere al contrario a domandarsi le ragioni di tanti “perché”.
Per esempio il perché della Poesia della vita, di sentirsi vivi in questa, così legati da dei fatti naturali.
Ma la Poesia è in agonia, questa è la cruda verità, ha bisogno di globuli sani per tenersi il più possibilmente in vita, senza sentire gli insulti di questo nostro tempo.
Ma come si fa a darglieli se questa umanità così folle preferisce voltarle la faccia per correre invece affannosamente cercando di afferrare il vento, in cerca d’una felicità che è lì a portata di mano. Ma cieca com’è non vi fa caso.
Questo è il più grosso dramma per chi ancora crede che la Poesia non è soltanto parola, ma vita, capirne le ragioni, gli scopi.
Eccoti spiegato il perché di tante mie fughe, sempre in cerca di una verità, la mia soprattutto, e dove la trovo li credo di essere nato. Sempre per la prima volta!
Se non ne sono contento vado a nascere in un altro posto, e gli stati d’animo così continuano.
E questo spero succeda fino al calare del sipario dell’ultima mia recita.
Ti abbraccio caro Nicola, con tanto affetto
il tuo Giovanni Omiccioli